100 giorni di guerra tra Russia e Ucraina, 4100 civili morti di cui 260 bambini. 5000 feriti. 6.8 milioni di rifugiati Ucraini.
810 giorni di Covid19 e relative varianti, 528.275.339 di casi confermati nel mondo di cui 6.293.4214 di morti.
Ci hanno insegnato che il tempo della crisi non esiste in termini di uniformità e linea temporale, perché in caso di crisi il tempo diventa lo scandire delle azioni utili a contenere i danni e mettere in sicurezza persone e territori. Si interviene con immediatezza tra il riscontro degli early signals e il manifestarsi dell’episodio critico, e le azioni si succedono in ordine di priorità in un flusso autentico di atti e comunicazioni che non può e non deve più essere fermato, come quelle fontanelle di montagna nelle quali l’acqua sgorga spontaneamente perché si tratta di acque che vengono naturalmente a giorno senza essere state estratte artificialmente.
Il tempo della crisi non si programma sulla linea temporale perché, se fosse possibile, le azioni si eseguirebbero in concerto, all’unisono, in coincidenza temporale: gestisco le conseguenze, sostengo le persone e le zone colpite, cerco le cause e contengo eventuali danni reputazionali. Tutto insieme. Non essendo possibile gestire la simultaneità, le azioni vengono eseguite secondo rigide logiche di priorità. Perché l’episodio che genera la crisi o la catastrofe, anche quando provoca danni a lungo termine, è normalmente breve e intenso: un incidente, un’alluvione, un terremoto, un incendio, un fallimento, un lutto…
Ma questi 100 giorni di guerra, che si aggiungono ai 700 di pandemia, ci suggeriscono chiaramente che uno dei ‘nuovi elementi’ da comprendere e gestire è proprio il tempo. Quel tempo che ci ha cambiati e che non ci farà tornare mai più come prima.
Già gli antichi greci ci hanno insegnato che la percezione del tempo cambia e che il tempo oggettivo e soggettivo non coincidono. In situazioni di gravissimo pericolo il tempo rallenta e gli attimi diventano eterni. Tale distorsione è creata dalla memoria perché gli eventi più critici generano più ricordi e la mente percepisce quindi un tempo più lungo. Agli effetti della memoria e delle emozioni si deve aggiungere la stanchezza. La stanchezza è arrivata improvvisa e ha portato con sé una progressiva e comprensibile indifferenza. Il numero di articoli e servizi dedicati alla guerra sono diminuiti di otto volte dall’inizio del conflitto, le interazioni sui social media sono passate da 109 milioni a 4.8 milioni. I livelli di attenzione e di concentrazione sui rischi e le conseguenze si sono abbassati e gli orologi continuano a registrare il semplice trascorrere del tempo cercando di spostare e neutralizzare, sulla linea simbolica orizzontale, la curva sinusoidale con i suoi picchi acuti alternati.
Anche il tempo è entrato a fare parte della crisi: voce fuori campo, ma protagonista indiscusso che ci costringe ad affrontare la stanchezza, ancora una volta, perché il rischio di rimanere indifesi e indeboliti nel disperato tentativo di immaginare una crisi che volge alla fine, è troppo vicino e troppo pericoloso. Per questo, nei nuovi libri che andremo a scrivere, raccogliendo le lezioni imparate, alla voce ‘reazione tempestiva e immediata’ andremo ad aggiungere anche ‘pericolo di adattamento al livello di rischio’, nuovo parametro che andrà tenuto in grande considerazione perché indifferenza e stanchezza sono minacce che lasciano aperto il rischio che qualcuno possa sempre approfittarsi del fattore tempo.
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